Il terremoto in Belice

La memoria e il passato possono essere un prezioso alleato per il presente e il futuro, soprattutto quando si tratta di eventi sismici. Gli eventi e i soccorsi già avvenuti forniscono un esempio su cui basarsi per migliorare, affinché l’incuria umana non contribuisca più a creare morte e distruzione. Di seguito il racconto del Generale Carmelo Sarcia’ , che, come uomo e come soccorritore, visse il terremoto del Belice da doppia angolazione e fu tra i primissimi soccorritori coi suoi uomini. Non vi nascondo che, leggendo questo suo ricordo accorato e ansiogeno, sono scese le lacrime, perché noi terremotati questa tremenda esperienza ce l’ abbiamo come compagna indelebile di vita.

“Dopo 53 anni da quella notte di terrore e di morte, i ricordi di un soccorritore.
15 GENNAIO 1968 LA VALLE DEL BELICE TREMA E UCCIDE
Dopo la Sicilia, toccò al Friuli, all’Irpinia, all’Umbria, alle Marche, all’Abruzzo e ad Amatrice.


Rieti, 19/05/2021
Ho accolto con empatia velata di tristezza l’invito della gentile amica di facebook Emanuela Pandolfi di riandare indietro con la memoria al gennaio del 1968, allorché nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 la Valle del Fiume Belice in Sicilia fu colpita
duramente da un terremoto gravissimo che fece tante vittime innocenti tra la povera gente mentre riposava nelle vecchie case fatte di pietre legate malamente da malta fatiscente. Non si contarono neanche i capi di bestiame, massacrati dai crolli delle antiche stalle, che rappresentavano per quelle persone tutta la loro ricchezza e la loro unica fonte di sostentamento.
Emanuela Pandolfi è sopravvissuta al terremoto di Amatrice e territori limitrofi ed ha trovato la forza ed il coraggio, malgrado i gravi lutti che hanno colpito la sua famiglia, di attivarsi con solerzia e costanza per sollecitare alle istituzioni la rinascita di quei luoghi dei quali tuttora rimangono solo mucchi di macerie, malgrado la ridicola promessa “NON VI LASCEREMO SOLI” ripetuta ciclicamente dal 2016 ad oggi, da Errani in poi, da tutte le personalità
istituzionali, governative, regionali, territoriali e commissariali che vi si sono recate in occasione dell’anniversario che commemorava i morti. Forse non ci torneranno, perché non hanno la faccia di ripresentarsi.
L’invito è stato quello di scrivere una nota a ricordo di quei lontani fatti, per affidarla alle pagine del Blog “Quel domani che non arriva mai” fondato e diretto dall’attivissima Emanuela Pandolfi.
Di quei tristissimi giorni mi tornano in mente tantissimi flash, anche se sono trascorsi 53
anni e dopo così tanto tempo la memoria si annebbia.

Devo premettere che io fui testimone dell’evento fin dalle prime scosse ed il mio ruolo fu quello di inviare sui luoghi i primissimi soccorsi, a poche ore dall’accaduto. Allora ero Tenente dell’Esercito, dislocato al Terzo battaglione di Fanteria “Aosta”, sposato con una ragazza di Rieti, Marilia, con una figlia, Alessia, di appena 4 mesi rimasta temporaneamente a Rieti coi nonni.
Dall’ultimo grande terremoto/maremoto che aveva interessato la nazione, purtroppo sempre in Sicilia, a Messina, erano trascorsi sessanta anni e nessuna predisposizione nel frattempo era stata presa dai vari governi (monarchici, fascisti e repubblicani) per
fronteggiare simili catastrofi. Quindi fu tutto da inventare.
Quella notte ero di servizio alla Caserma “Gen. Cascino” di Palermo, nei pressi della Fiera del Mediterraneo, in qualità di Ufficiale di Picchetto. Si sa che l’Ufficiale di Picchetto non dorme: vigila sulla regolarità del servizio di guardia per la sicurezza della caserma, ispeziona le camerate dei soldati per accertarsi che non vi siano anomalie negli impianti per l’incolumità dei militari stessi, risponde alle eventuali chiamate telefoniche provenienti dai superiori Comandi, si assicura che i militari comandati di Picchetto Ordinario, una trentina di uomini, siano in grado di essere pronti per l’impiego in caso di emergenza. Nel pomeriggio del 14 agosto c’erano state varie scosse, ma a Palermo non erano giunte notizie allarmanti che potessero far sospettare la possibilità di imminenti danni di vaste
proporzioni. Succede sempre così coi terremoti, L’Aquila ne è stato un esempio.
Inaccettabili le conseguenze del mancato sgombero dell’Aquila, dopo i fatti di Messina e quelli più recenti appunto di Montevago e Gibellina.
Non era l’epoca delle televisioni, dei cellulari e dei social. Le notizie arrivavano lentamente e filtrate e Palermo era abbastanza lontana dall’area interessata al sisma, area che giaceva sulla sponda Sud dell’Isola. Il giorno prima le scosse si erano avvertite persino all’Isola di Pantelleria. Segno evidente che il sisma aveva parenti stretti lungo la
falda mediterranea che sappiamo essere costantemente in movimento a causa dell’attrito
fra il colosso africano e quello continentale europeo.
Alle 3 in punto, 03.01 per l’esattezza, tutti gli edifici della Caserma cominciarono a tremare pericolosamente. I Soldati, impazziti dal terrore, si erano precipitati giù per le scale coperti solo dai pigiami e avvolti nelle coperte, la notte, benché siciliana, era fredda abbastanza. Nella zona del terremoto, lo sapemmo dopo, aveva addirittura nevicato.
Mentre mi prodigavo per rassicurare i militari e concentrarli in un’area lontana dalla possibilità di crolli, indirizzavo con le dovute cautele gli uomini del Picchetto Ordinario ad indossare l’uniforme operativa e fornirsi dell’equipaggiamento previsto. L’autista di servizio, lo ricordo benissimo, un simpatico ragazzo italiano, figlio di Somali, mi
raggiunse avvertendomi che la mia giovane moglie aveva chiamato da casa per farmi avvisare che era terrorizzata e mi chiedeva di mandare qualcuno a prenderla. Abitavamo negli alloggi di servizio a qualche centinaio di metri dalla Caserma; così mandai il giovane autista a prelevarla. La mia povera moglie giunse in Caserma che era uno straccio …
piangente, terrorizzata. La scossa era stata molto violenta; mi disse tra i singhiozzi che i mobili si muovevano in avanti e tornavano indietro come fossero animati dagli spiriti. La feci accomodare nel lettino a me riservato nel Corpo di Guardia e tornai tra i militari a confortarli, cui feci distribuire delle bustine di cordiale che all’epoca veniva prodotto dall’Esercito nei Laboratori Militari di Maddaloni Caserta.
Quando nel pomeriggio mi fu dato il cambio, mia moglie ed io non ce la sentimmo di tornare a casa. Dopo le gravi notizie che nella mattinata del 15 cominciavano ad arrivare, non era il caso di rischiare. Così rimanemmo in Caserma e passammo le notti successive nella nostra piccola Fiat 500.

Dopo due settimane di estenuanti giornate di strenuo impegno organizzativo e di notti passate raggomitolati dentro la Fiat 500, decidemmo di
salire in casa (stava al terzo piano di un edificio costruito negli anni Venti per gli Ufficiali dell’Esercito con famiglia) per una doccia ristoratrice e qualche ora di sonno in un letto
vero. Erano le 14 circa, eravamo piombati in un sonno che solo chi non ha dormito per
due settimane di seguito potrebbe capire, quando la spalliera del letto cominciò a sbattere con violenza contro il muro, il lampadario ad oscillare paurosamente, i comodini a camminare da soli e il quadro a capezzale ad oscillare come un pendolo. Avevamo preparato i vestiti e i necessaire nei pressi dell’ingresso. Schizzammo via come due furetti
per metterci in salvo, saltando i gradini a due a due per raggiungere il pianterreno. Erano case solide, fatte costruire dalla Buonanima. Il palazzo non riportò neanche una crepa.
Era costruito con pietra sponga, elastico e resistente, i solai fatti di tavelle appoggiate
sulle putrelle di acciaio ed ancora oggi è lì, a Palermo, efficiente ed accogliente, nei pressi
dell’ingresso al Viale Diana che porta a Mondello, davanti alla Fiera del Mediterraneo.

Nel frattempo era arrivato l’ordine di mandare subito i 30 uomini del Picchetto Ordinario nella Valle del Belice, per mettersi a disposizione delle Autorità locali e collaborare nella ricerca dei dispersi rimasti intrappolati sotto le macerie. Il Comandante del Picchetto, altro ricordo nitido, era il Tenente Loi, un Ufficiale Sardo, preparato e maturo; una garanzia per i giovani militari che si apprestavano a celebrare il loro battesimo di Soldati con una inimmaginabile catastrofe. Io comandavo le Sezione automobilistica: oltre centoventi mezzi tra veicoli cingolati per trasporto truppa AMX-12, autocarri leggeri, medi e pesanti e autovetture da ricognizione “Matta” Alfa Romeo e “Campagnola” Fiat.
I giorni successivi furono frenetici. I miei uomini alla guida degli autocarri facevano la spola tra Palermo e l’area colpita dal terremoto, notte e giorno, per consegnare i soccorsi che giungevano da tutt’Italia. Una gara di generosità cui i nostri connazionali non si sono mai sottratti in ogni tempo e in ogni epoca: medicinali, coperte, vestiario, tende “Moretti” a doppia copertura, viveri freschi e inscatolati, ecc. Nel contempo giungevano, direttamente nelle zone terremotate, medici, boyscout, volontari di ogni età tra cui Alpini in congedo dal Veneto, soccorritori nati, lavoratori instancabili e tenaci. Alcuni gruppi
anche dall’estero. La disorganizzazione fu immane. I soccorsi venivano gestiti dalla Prefettura competente senza piani prestabiliti, senza un’idea neanche parziale di come gestire morti, feriti, sopravvissuti, volontari, materiali, viveri e soccorsi in arrivo. Un caos indescrivibile. La scena era ovunque apocalittica, infernale; alla neve si era sostituita la
pioggia incessante. Nei paesi, a quei tempi, forse ancora adesso, non vi erano aree asfaltate, quindi tutto era dominato da una fanghiglia appiccicosa e triste che impediva persino di muoversi a piedi. Solo le Forze Armate (Reparti di Fanteria, del Genio militare e dei Granatieri di Sardegna da Roma, Reparti della Croce Rossa Italiana, militari
dell’Aeronautica, della Finanza e dei Carabinieri) conservarono quella saldezza di intervento organizzato cui per fortuna vengono abituati i militari … il famoso Comando Unico che fa tanta paura ai casinisti.
Un mio autista di ritorno mi raccontò che cercava qualcuno che lo aiutasse a scaricare il suo camion carico di coperte e allora si rivolse ad alcuni uomini del luogo seduti uno accanto all’altro sul bordo del marciapiede nei pressi della tenda magazzino.
Terribilmente stonata fu la risposta che ricevette: NOI, TERREMOTATI SIAMO!…
Nessuno infatti dei locali sopravvissuti si rimboccò mai le maniche in aiuto dei soccorritori. E intanto, coi pochi mezzi a disposizione per movimentare le macerie, i cadaveri ancora sepolti cominciavano a puzzare.
Un ricordo, questo che mi fa arrossire ancora, come Siciliano e come militare. Anche perché più tardi ebbi modo di conoscere le vicende post terremoto del Friuli, dove Gemona ed altri Centri viciniori vennero ricostruiti dagli stessi abitanti, senza attendere l’elemosina tirchia e truffaldina dei Commissari governativi, bugiardi teatranti da
passerella.
Nei giorni successivi le scosse non si fermarono e ve ne furono altre violente che fecero crollare i muri rimasti in piedi. L’improvviso crollo di uno di questi uccise uno dei militari soccorritori. Un maresciallo dell’Aeronautica, che si stava prodigando in
vicinanza dei cumuli per chiamare alla voce eventuali superstiti rimasti intrappolati.
Questo episodio suggerì alle autorità di far crollare in sicurezza i muri rimasti in piedi utilizzando i mezzi cingolati del mio Battaglione che avrebbero portato i minatori del Genio militare a marcia indietro in prossimità dei muri da abbattere, protetti dallo scafo dei carri, così da far brillare le cariche di tritolo senza pericolo per la loro incolumità.
Affidai i carri ai Piloti più bravi, formai una colonna e partimmo da Palermo dopo pranzo, io alla guida del Carro di testa, alla volta di Montevago e Gibellina: 60 chilometri circa, con gli occhialoni da carrista, la testa coperta dal casco di cuoio e il volto sferzato
dal vento gelido.
A metà strada accadde qualcosa che mise a rischio la mia vita: nell’affrontare una curva pericolosa a sinistra che era stata appena asfaltata, sotto il peso del carro e sotto la pressione del cingolo destro in fase di cambio di direzione, la strada franò verso il pendio per una profondità di circa un metro e il carro da me pilotato rimase in bilico, per fortuna, senza precipitare. Non potei fare altro che azionare la sirena per avvertire i piloti di fermare i carri. Poi, esaminata la situazione, con l’aiuto dell’indimenticabile Sergente Maggiore Michele Caruso, riuscimmo a riportare il carro in strada e proseguimmo il viaggio, arrivando la sera presso la Sala Operativa in Zona Montevago – Gibellina.
Anni dopo, tra il 1983 e il 1987, durante uno dei Governi Craxi, fui insignito dal Ministro della Difesa Giovanni Spadolini, della Medaglia Commemorativa con nastrino:
“Per l’intervento nel sisma del Belice 1968”.
(Carmelo Sarcià)
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Carmelo Sarcià vive con la famiglia a Rieti dove è tornato alla fine dell’Estate 1969. Nel 1996,
all’atto del collocamento nella Forza Ausiliaria, ha conseguito il grado di Generale di Brigata ed
essendosi laureato in Giurisprudenza all’Università di Teramo, ha percorso con profitto l’itinerario
formativo per diventare avvocato. Nel 2010 si è iscritto all’Albo degli Avvocati di Rieti ove esercita
tuttora la professione forense. E’ inoltre iscritto all’Albo dei Giornalisti del Lazio come Pubblicista ed è Direttore Responsabile del Periodico di Arte e Cultura Graffiti-on-line.com”.